martedì 29 agosto 2017

"Oceanografia del tedio" di Eugenio d'Ors: l'opera d'arte è semplicemente un titolo

L'opera di Eugenio d'Ors ha trovato in Italia un convinto promotore in Luciano Anceschi. Di Anceschi è difatti la cura di quella che resta l'opera più fortunata e duratura dello scrittore catalano, Del Barocco del 1936 (disponibile nel catalogo Abscondita), una raccolta di scritti dove questo stile veniva ribaltato e ricollocato originalmente nell'analisi fenomenologica. Qualche tempo fa ho scritto di un altro libro di Eugenio d'Ors, un volume ad alto tasso angelico (qui), e ora, per Aragno, è disponibile anche l'altro dei testi prediletti da Luciano Anceschi, la difficilmente catalogabile e anche per questo così seducente Oceanografia del tedio (pp. 98, euro 15, a cura di Alessandra Ruffino). Lo scritto comparve in catalano nel 1918 e in castigliano nel 1921. La traduzione proposta da Aragno oggi è quella di Oreste Macrì del 1943 (Roma, Edizioni Lettere d'Oggi), tuttavia, poiché cosparsa di qualche refuso, è poi stata collazionata con il testo castigliano del 1921 e con l'altra traduzione italiana disponibile, quella di Dino Campini del 1945, uscita nel volume Oceanografia del tedio e Storie delle asparagiaie (Milano, Perinetti e Casoni). Il libro è sostanzialmente una breve novella con quattro personaggi, un dottore e un Autore, una donna che può distrarre dal tedio e un amico. All'Autore viene prescritto il tedio contro l'esaurimento, un anticartesiano non-pensiero, l'assenza di movimento, il viaggio da fermo nella sedia a sdraio nel parco all'esterno di un albergo, la concentrazione di quello strano quieto rodimento che il tedio è. E da qui il libro s'avvia.

La novella (esemplare?), che è accompagnata da un'ampia prefazione della curatrice Alessandra Ruffino, si legge in pochi minuti e in parte è riassunta nelle poche righe del paragrafo precedente. Inoltre, ciò che accade, che è poco ma anche tanto, accade primariamente nella scrittura e lì soltanto (come in ogni libro di finzione, se è per questo, anche se qui è centrale l'atmosfera). L'Autore, fra l'altro, dice che l'opera d'arte non è che un titolo. Iniettata nel circuito editoriale d'oggi, quest'opera di Eugenio d'Ors pare ponga schiettamente alcune questioni all'ecosistema librario e al percepito libresco. Non è quasi mai saggio quello che sto facendo, ovvero trasformare una nota di lettura in un pretesto per parlare d'altro e allargare la visuale sul panorama editoriale, sulla circolazione, l'estetica e i meccanismi di produzione del libro, ma questa non vuole essere certo una recensione-modello (piuttosto una recensione-monello). Oceanografia del tedio pone ad esempio un cuneo divaricatore tra la cosiddetta opera d'azione e l'opera di atmosfera, tradizione nella quale si potrebbe a buon titolo inserire, e l'occasione mi pare troppo ghiotta per non sfruttare questo cuneo per suggerire qualche spunto. Inoltre, volendo offrire una motivazione alla lettura, è anche questo elencato sopra uno dei motivi per cui il libro proposto da Aragno potrebbe essere valutato per una lettura tardo agostana o settembrina: si tratta di un libro di atmosfera come pochi (in senso quantitativo assoluto, cioè intendo dire che sono pochi i libri di atmosfera). Ora, non si dà prosa senza azione e non si dà azione senza un personaggio (qui comunque ve ne sono ben quattro), eppure l'azione, codificata precocemente da qualsiasi poetica, non è tutto e in questo libro si può dire che l'azione è, già dal titolo, carente. Bisognerebbe ogni tanto aver presente quel versante muschioso, scivoloso e quasi perennemente in ombra che determinate stagioni di scrittura inseguono (e non da ieri). Mi riferisco agli universi di scrittura dove l'atmosfera è preponderante e sensibilmente più densa in quella sorta di continuum artificioso che possiamo tracciare tra l'azione e l'atmosfera. Potremmo anche dire che le scritture d'atmosfera sono le scritture dove accade qualcosa nella scrittura stessa e dove l'azione scema in intensità. La questione e il continuum non sono semplici da risolvere, però mi pare abbiano una ragion d'essere, soprattutto nel percepito medio e nelle logiche di produzione editoriale. Oggi per la maggiore mi pare vadano i libri di narrativa dove l'azione è esaltata, incalzante, prerequisito fondamentale. Insomma, solo un'azione ben costruita, magari filmica, emanata magicamente da personaggi ben torniti consente quella "lettura tutta d'un fiato" che è l'espressione passepartout prediletta da ogni pigro recensore. Eppure l'atmosfera è una forma d'azione, la rinuncia alla movimentazione e all'agitazione facilitata dei personaggi non è necessariamente una strada fallimentare per la scrittura (forse lo è nella testa dei direttori del marketing e naturalmente li comprendiamo). E non è vero che è la poesia il versante in cui recuperiamo questa scrittura che abbiamo deciso di chiamare "d'atmosfera", per comodità e anche un po' per sfida. Per ora rimaniamo nel prato della prosa, rimaniamo ai pezzi e ai brani che non siano scritture in versi o prose poetiche. Va da sé che questo ragionamento richiama anche un discorso più ampio e qui non praticabile sulla specificità delle singole tipologie di scrittura, sulle loro resilienze e su più o meno probabili estinzioni ormai prossime, in un periodo in cui osserviamo le pile dei romanzi scritti come se fossero sceneggiature lievitare a vista d'occhio. 

sabato 26 agosto 2017

"Citizen. Una lirica americana" di Claudia Rankine

Anni fa la casa editrice Nutrimenti ha pubblicato Un uomo a pezzi, traduzione italiana di Letizia Sacchini di Man Gone Down di Michael Thomas. Anche in quel libro la questione del razzismo in America, nonostante lo storico e simbolico approdo di Barack Obama alla Casa Bianca, si mostrava tutt'altro che risolta e la forma scelta per affrontare questo tema eterno si bagnava in un flusso fluviale. Il razzismo è una costante e il razzismo è centrale anche nell'acclamato Citizen di Claudia Rankine, uscito nel 2014 negli Stati Uniti, ma tradotto solamente quest'anno da Silvia Bre e Isabella Ferretti per la casa editrice 66thand2nd (pp. 176, euro 16), un titolo già mietitore di considerevoli successi di critica e pubblico in patria. Va detto a chi desidera avvicinarsi all'opera che questo libro sottotitolato An American Lyric è un poema in prosa (o saggio lirico) che monta testi di diversa configurazione (frammenti, aforismi, prose più o meno estese, testi per situation video realizzati da Rankine assieme a John Lucas) con opere d'arte e fotografie. Citizen è quindi anche un esempio di dove possa essere spinta e portata la forma "libro" e quale spazio possa occupare un discorso che si muova ancora sotto l'etichetta della poesia (lirica, tra l'altro, se diamo seguito al già citato sottotitolo). Allo stesso tempo Citizen è molte altre cose che il lettore, chiamato in causa con un percussivo tu, è invitato a guardare e soprattutto a traguardare, in questo flusso regolato dall'autrice. Claudia Rankine ha quindi scritto un libro fortemente veicolabile e naturalmente sempre più "attuale" (ogni giorno che passa, verrebbe da aggiungere) che quasi sembra far dimenticare l'emarginazione alla quale siamo abituati quando sentiamo parlare di poesia.

Ad un certo punto del testo, lì dove si commenta la sequenza dell'episodio della testata di Zidane a Materazzi ai mondiali di calcio (si ricorda la testata, perché si è vista, ma qualcosa deve essere uscito dalla bocca del difensore italiano di cui possiamo vedere solo il labiale), Rankine scrive che forse "la forma di segregazione più insidiosa e meno compresa è quella della parola". Lo sport è ovviamente protagonista di un libro del genere, e a tal riguardo si segnala il riuscito capitolo dedicato alla tennista Serena Williams, campionessa e "regina" nera in uno sport bianco, e alle sue vicende coi giudici di gara. La citazione ricordata poco sopra costituisce un passaggio inevitabile, perché è da qui che passa la peculiarità che questo libro, collocabile in una scia che trova nello scrittore James Baldwin un caposaldo, schiettamente espone al proprio pubblico. Nell'intersezione della parola, nel suo "saggio lirico" Claudia Rankine ha saputo costruire un libro che proprio al disagio della parola, al suo potere segregante e pervasivo fa continuamente ritorno, mostrando la martellante e infiltrante presenza del razzismo. Ma questo effetto percussivo, che è della realtà e nella realtà, non è mimeticamente riprodotto nella trama felicemente grezza del testo, nella quale precipitano invece episodi, stralci di situazioni e linguaggio. Certo, il razzismo è dappertutto, non solo nelle parole e nel linguaggio, e molto spesso si dà anche incistato nel sistema delle leggi o quantomeno in quello dell'amministrazione della giustizia e dell'ordine. Ma in un passaggio altrettanto importante Claudia Rankine conferma:
Di recente, ti trovi in una stanza dove qualcuno domanda alla filosofa Judith Butler cosa rende il linguaggio fonte di dolore. Vedi che tutti tendono l'orecchio. Il fatto stesso di esistere ci espone all'indirizzo dell'altro, risponde. Noi soffriamo la condizione di esseri cui gli altri si possono rivolgere. La nostra esposizione emotiva, aggiunge la Butler, coincide con il nostro essere a disposizione della parola dell'altro. È il linguaggio a governare questo processo. 
Il punto da far emergere, volgendo alla conclusione, credo possa essere anche questo: come scrivere un libro che non sia un normale rispecchiamento di precetti e idee condivisibili sulla carta ma che quasi mai trovano un rispecchiamento nella società? Come farlo con la poesia o con l'accento "lirico"? Detto diversamente, come usare il mezzo della poesia, della prosa poetica o del saggio lirico che dir si voglia, per tentare di svegliare l'attenzione sui giganteschi sonni attraverso i quali si perpetuano le discriminazioni e le segregazioni, non soltanto della società americana? Per la cronaca, si ricorda poi che è in corso una strage inesorabile, neanche tanto lenta, ai danni di cittadini afroamericani. Le cifre di questa strage, se prese in mano, dovrebbero far rabbrividire e preoccupare più o almeno tanto quanto altre minacce che quotidianamente occupano le prime pagine dei giornali.


mercoledì 23 agosto 2017

Poesie di Bill Mohr nella traduzione di Stefano Strazzabosco

Accanto ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma, mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro se capita.

Bill Mohr, Una risposta
Versioni di Stefano Strazzabosco

Una risposta

per Leland Hickman (1934-1991)

Una settimana prima che mi rubassero
la macchina, ho guidato
da Ocean Park a
Cahuenga Blvd., e mi sono seduto
vicino al tuo letto.
Dicendo di sì o di no ai titoli
delle poesie che ti leggevo, tu ascoltavi
e dormivi.
                   Gli amici risero
quando dissi: “la mia macchina è andata”.
“Senza offesa, Bill, com’è possibile?”
“Immagino che una vecchia macchina non sia
protetta dalle sue ammaccature”.
Posso prendere il bus per andare al lavoro,
ho pensato, ma come verrò a
trovarti di nuovo prima
che tu muoia. La fortuna arrise
a due poliziotti. Me la restituirono
e ti chiamai: “Posso venire a trovarti”.
“Non oggi. Non mi sento troppo bene”.
Una settimana dopo la tua cremazione,
non mi sei ancora apparso
in sogno. Forse mi avevi
già detto tutto il necessario, ma speravo
in una sorpresa. Ieri
una multa per divieto di sosta
mi ha sconcertato finché ho visto
la data: oh, è di quando
mi hanno rubato la macchina. Bene, bene,
era solo a otto isolati,
ma come potevo sapere
che era così vicina?

Una volta mi hai chiamato alle 2 di notte.
Per caso, ero sveglio, a leggere,
seduto sul mio materasso per
terra. Quando il telefono ha squillato,
l’ho fissato. Ha suonato di nuovo.
“Pronto?” “C’è qualcosa di buono
in quello che scrivo?”, hai sbottato. Ti ho calmato,
lenendo le tue incertezze con le mie.
Non me lo chiederai mai più.
Ora sai la risposta
e può darsi che non sia
quella che tu o io ci aspettavamo.


L’offerta

Una visione interruppe una
delle ultime messe
di San Tommaso d’Aquino, un’offerta gratuita
dagli innumerevoli centri
oltre i venti e le nubi della terra.
Tommaso disse che ora capiva
che quanto aveva scritto era
spazzatura. Migliaia
di pagine, in latino, e
questa era la sua propria
summa. Così mi disse un giovane
prete nel cui calice
avevo versato del vino.
Anni prima di aver scritto
la mia prima poesia, immaginavo
che avrei scritto molto poco
in modo che quando e se una visione
avesse calmato la mia perplessità,
non mi avrebbe sconcertato tanto
la differenza tra le mie parole
e le essenze inseparabili
delle conflagrazioni, la morte e gli accenti divini.


Dopo la pioggia

Un gatto con macchie
color toffee si apposta nel
pollaio abbandonato, striscia
dietro due bottiglie d’acqua – la sua immagine
chiazzata lampeggia nell’acqua,
distorta, poi affonda
e sparisce. Sbucando
dall’alta erba verde,
saltando una pozzanghera –
fissa una cavolaia
svolazzare tra i girasoli.
Scivola lungo una staccionata,
poi salta sopra un albero, già mezzo mangiato
dall’autunno. Quando annusa un ramo,
cade una foglia. Si gira, torna
verso la staccionata. Il vento
solleva qualche foglia gialla.


Negli anni a venire

Io non so niente,
ripeteva l’uomo
prima dell’interrogatorio.
Se sapessi, parlerei.
Non ho nessun coraggio.
Non è necessario
picchiarmi. Collaborerò.
Se volete che accusi
qualcuno che è innocente,
cominciamo pure a scrivere.
Avrete più storie
di quante i vostri bambini
potranno mai leggere,
non importa quanto a lungo
stiano svegli di notte.


Cuoco nudo


Amo vedere un cuoco nudo, dici,
pungolando gli orecchini mentre mescolo
l’avena. Lancio l’accappatoio
su una sedia di fianco al tuo piatto –
un sandwich, una fetta di anguria,
una pesca. Hai ragione. Senza niente
addosso sono elegante. Non mi
vesto quando te ne vai, invece lavo
i piatti, pensando alla sveglia poco
cara che ieri ho preso in un negozio
con gabbie per uccelli e sacchetti di plastica
pieni di arance e pesciolini rossi.
Mi piaceva strizzare da bambino
questi sacchetti, schiacciando con le dita
la morbidezza di quel mondo in trappola;
ora lavo le prugne riempiendo
un sacchetto di plastica e agitandole.
“Prendine quante ne vuoi”, mi diceva
la mamma di una sposa attaccando alla siepe
del ristorante di un bed & breakfast
dei palloncini gialli e rosa. Un colpo
di vento li fece rimbalzare e scoppiare
come le uova nell’acqua bollente.


Come smettere di scrivere poesie

Più a lungo l’hai fatto,
più è facile smettere.
C’entrano molto gli ormoni,
comunque, sebbene i poeti
sembrino avere una seconda
adolescenza più spesso
degli altri. Penso al sesso
più adesso di quando avevo 15 anni.
Ovvio, non ci pensavo
tanto, allora, non volevo
andare all’inferno per pensieri impuri.
Adesso è un inferno perché
i pensieri impuri non sono più
così frequenti. Voglio dire,
c’è questa bella donna
che conosco e che quando la penso
non riesco a immaginare nuda,
e quando avevo 25 anni
non sarei stato neanche
sei secondi senza
quell’interferenza.
Ora trascorro intere giornate
senza pensare
alla poesia. È
un inizio, immagino,
ma può darsi che non possa
smettere mai di scrivere,
perfino dopo morto,
perché non c’è neanche una parola in grado
di arrestare ciò che il piacere
di mia madre e di mio padre ha fatto
partire come una poesia,
contando su di me
perché riempissi le loro parole,
nonché i loro contrari.





An answer

for Leland Hickman (1934-1991)

A week before my car
was stolen, I drove
from Ocean Park to
Cahuenga Blvd. and sat
next to your bed.
Saying yes or no to titles
of poems I read, you listened
and slept.
                  Friends laughed
when I said, “My car’s gone.”
“No offense, Bill,, but why?”
“I guess an old car’s not
protected by its dents.”
I can take a bus to work,
I thought, but how will
I visit you again before
you die. Luck nudged
two policemen. I got it back
and called, “I can come visit.”
“Not today. I don’t feel too well.”
A week after your cremation,
you still haven’t appeared
in a dream. Perhaps you told
me all you needed to, but I hoped
for a surprise. Yesterday
a parking ticket notice
puzzled me until I saw
the date: oh, that’s when
my car was stolen. Well, well,
it was only eight blocks away,
but how was I to know
it was that close?

One 2am you called me.
By chance, I was up, reading,
sitting on my mattress on
the floor. When the phone rang,
I stared at it. It rang again.
“Hello?” “Is my writing
any good at all?”  you blurted. I comforted you,
soothing your incertainties with mine.
You’ll never ask me that again.
You know the answer now
and it may not be the one
any of us expected.


The offering

A vision interrupted one
of St. Thomas of Aquinas’s
final Masses, a gratuitous offering
from the multitudinous centers
beyond earth’s winds and clouds.
Thomas said he now understood
all he had written was
so much straw. Thousands
of pages, in Latin, and
that was his idiomatic
summation. So a young
priest into whose chalice
I’d pounded wine told me.
Years away from writing
my first poem, I guessed
I would write only a little
so that when and if a vision
calmed my bewilderment,
I wouldn’t be puzzled
by the difference between my words
and the inseparable essences
of conflagrations, death and godlike tones.


After rain

A cat with butterscotch
splotches stalks the abandoned
chicken coop, streaks
past two water bottles – its mottled
image flashes in the water,
distorted, then sinks
and vanishes. Diving out
of the tall green grass,
leaping over a puddle –
it stares as a cabbage moth
flutters among sunflowers.
It glides along a fence rail,
then leaps into a tree, half-eaten
by autumn. As it sniffs a branch,
a leaf drops. It coils, returns
to the fence. The wind
drizzles through yellow leaves.


In the years to come

I don’t know anything,
the man repeated
before interrogation.
If I did, I’d talk.
I don’t have any courage.
You don’t have to
beat me. I’ll co-operate.
If you want me to accuse
someone who’s innocent,
then let’s start writing.
You’ll have more stories
than your children
could ever read,
no matter how long
they stay awake at night.


Naked chef

I love a naked chef, you say,
jabbing on earrings as I stir
oatmeal. I toss my bathrobe
over a chair beside your lunch –
sandwich, slice of cantaloope,
peach. You’re right. I’m sleek
without clothes. I don’t get
dressed when you leave, but wash
dishes, thinking of the cheap alarm
clock I bought yesterday in an aisle
with bird cages and plastic bags
bulging with orange and red fish.
As a child I loved to squeeze
those bags, fingers pinching
the world’s trapped softness;
now I wash plums by filling up
a plastic bag, wiggling them around.
“Pick as many as you want”, a bride’s
mother urged as she tied yellow and pink
balloons to bushes behind a bed
and breakfast restaurant. A breeze
made them bounce and click
like eggs in boiling water.


How to quit writing poetry

The longer you’ve done it,
the easier it is to quit.
Most of it’s hormonal
anyway, though poets
seem to have a second
adolescence more often
than most. I think about sex
now more than when I was 15.
Of course, I didn’t think
about it much then, I didn’t want
to go to hell for impure thoughts.
Now it feels like hell because
impure thought just don’t
come that easy. I mean,
there’s this beautiful woman
I know and when I think of her
I can’t imagine her naked,
though when I was 25
I wouldn’t be able to go
six seconds without
such an interruption.
I can go days now
without thinking
about poetry. That’s
a start, I suppose,
but what if I can
never stop writing,
even after I die,
because there is no single
word which can halt
what my mother’s
and father’s pleasure
started as a poem,
counting on me
to fill in the words,
and their opposites.



Bill Mohr è poeta, critico, saggista. Nato a Norfolk, Virginia (Stati Uniti) e cresciuto lì e in altre città costiere, si è poi stabilito a Los Angeles, dove ha curato due importanti antologie di poeti locali: The streets inside (1978) e Poetry loves poetry (1985) e ha diretto varie riviste letterarie. Ha pubblicato le raccolte Hidden proofs (1982) e Bittersweet Kaleidoscope (2006). Nel 2004 ha ottenuto un dottorato in Letteratura presso l’Università della California di San Diego. Attualmente insegna alla California State University e vive a Long Beach con sua moglie Linda Fry.



martedì 22 agosto 2017

Pressioni. Festival di editoria poetica a Bologna il 21 e 22 settembre 2017

Segnalo di seguito il programma della prima edizione di "Pressioni. Festival di editoria poetica" organizzato da La Balena Bianca a Bologna nei locali del CostArena, via Azzo Gardino 48, nei giorni di giovedì 21 e venerdì 22 settembre 2017.






Qui il link all'evento Facebook.

Di seguito il calendario del festival:

GIOVEDÌ 21 SETTEMBRE

Dalle ore 18.00:

Scrivere del proprio tempo: la scelta e il catalogo
Matteo Fantuzzi, Marco Giovenale

Dal manoscritto al libro: tra fundraising e produzione
Andrea Cati, Luca Rizzatello

OFF | Le sfide dell'editoria poetica
Paolo Giovannetti, Matteo Marchesini, Tommaso Di Dio, Julian Zhara

VENERDÌ 22 SETTEMBRE

Dalle ore 18.00:

Il libro oggi tra analogico e digitale
Manuela Dago, Tiziano Fratus

I costi dell'editoria: pagare o non pagare?
Gianfranco Fabbri, Marco Scarpa

OFF | La poesia inedita, le riviste e la filiera editoriale
Alberto Cellotto, Maria Borio, Andrea Cati, Luca Rizzatello

venerdì 18 agosto 2017

Henrik Ibsen, vita dalle lettere: "Tutta la parata delle generazioni mi ricorda un giovane calzolaio che butta gli stivali per darsi al teatro"

Riletture di classici o quasi classi (dentro o fuori catalogo) #36
Quote #17


"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.



Tra gli epistolari che a spizzichi e bocconi mi è capitato di leggere negli ultimi tempi, ho trovato particolarmente vivido quello di Henrik Ibsen. Si può leggere in un libro ormai datato e tuttora in commercio pubblicato da Iperborea nel 1995 e intitolato Vita dalle lettere (pp. 188, euro 12,50, a cura di Franco Perrelli). Per uno scrittore che pensava di non essere a proprio agio nel rapporto epistolare, questa raccolta ha invece un nucleo di temi e moventi sorprendenti. Si presenta ricca di spunti, di traiettorie geografiche, di rimandi continui all'opera e alla sua interpretazione internazionale, ovviamente anche alla sua messa in scena, trattandosi spesso di teatro. Ad esempio, in una lettera del 1891 a Moritz Prozor, traduttore francese di Casa di bambola, parla dell'idea strampalata di Luigi Capuana, traduttore dal francese del noto dramma di Nora, della volontà di cambiare la scena finale per i teatri italiani. Ora, chi ha letto il testo, ha assistito a una messa in scena o ha anche solo sentito parlare di Casa di bambola, sa come tutta quest'opera assai dibattuta e quasi proverbiale trovi sostanza a partire dalla scena finale. E questo è anche quanto Ibsen ribadisce a Morotz, lamentandosi dell'idea di Capuana, fortunatamente sventata da chi doveva finire sul palco a recitare. Fu infatti Eleonora Duse, prima interprete del dramma al teatro Filodrammatico di Milano il 9 febbraio 1891, che convinse Capuana a mantenere il finale originale dell'opera. Va considerato anche il dato temporale poiché il dramma ibseniano comparve nel 1879 ed erano quindi già trascorsi un bel po' di anni quando Capuana si preoccupava della reazione del pubblico italiano davanti al finale originale: la nomea di Casa di bambola aveva già fatto il giro d'Europa. Ma questo è solo uno dei tanti aspetti interessanti che questo libro conserva. Tra i vari filoni di corrispondenza, quello più avvincente e nutrito mi è parso lo scambio con Georg Brandes. Ed è proprio una delle lettere a Brandes che riporto di seguito.



A GEORG BRANDES 
Dresda, 24 settembre 1871 
Caro Brandes,
[...] Ciò che vorrei soprattutto augurarle è un perfetto puro egoismo, che la spinga per un po' di tempo a considerare la sua attività come la sola cosa che abbia valore e significato, e tutto il resto come insussistente. Non reputi ciò indice di un tratto brutale della mia natura! Lei non può fare bene alla società in miglior modo che coniando il metallo che ha dentro. Io non ho mai posseduto un forte sentimento di solidarietà; in fondo l'ho soltanto recepito come un dogma tradizionale - e se si avesse il coraggio di non tenerne conto ci si sbarazzerebbe di quella zavorra che più grava sulla personalità. - In generale, a volte, tutta la storia universale mi appare come un grande naufragio; altro non resta che salvare se stessi.Non mi aspetto niente di riforme particolari. La specie umana tutta è sulla strada sbagliata, sì. O c'è qualcosa di difendibile nella situazione attuale? con i suoi inattingibili ideali ecc.? Tutta la parata delle generazioni mi ricorda un giovane calzolaio che butta gli stivali per darsi al teatro. Noi abbiamo fatto fiasco tanto nel ruolo di amante quanto in quello di eroe; l'unico nel quale abbiamo dimostrato una briciola di talento è il comico-naîf; ma con la nostra autocoscienza più sviluppata neanche lì faremo strada. Non credo che vada meglio altrove che in patria; le masse non hanno cognizione alcuna delle cose supreme, all'estero come da noi.[...] Durante la preparazione di Giuliano l'Apostata sono divenuto in un certo senso fatalista; ma questo dramma diventerà una specie di bandiera. Comunque non tema qualche opera di tendenza; io considero i caratteri, i piani incrociati, la storia, e non mi curo della "morale" della vicenda - sempre che lei nella morale della storia non comprenda la sua filosofia; perché va da sé ch'essa affiorerà come verdetto finale sul conflitto e la vittoria. Tanto questo però potrà chiarificarsi solo praticamente.[...] Infine il mio più cordiale ringraziamento per la sua visita a Dresda: ore memorabili per me. Fortuna, coraggio, salute e ogni bene.
Il suo affezionato
Henrik Ibsen

Nota: il primo incontro tra Ibsen e Brandes era infine avvenuto il 14 luglio. Congedandosi Ibsen aveva detto all'amico: «Lei scuota i danesi e io lo farò con i norvegesi».

sabato 12 agosto 2017

Soggetti "schermati": Federico Vercellone e "Il futuro dell'immagine"

Lo tsunami di immagini che continuamente inonda l'iconosfera, con le sue acque filtrate o non filtrate, trova negli schermi che teniamo in mano, in Instagram o in Snapchat, ennesimi e transeunti epifenomeni. Non si tratta di uno tsunami contemporaneo, di un maremoto iniziato ieri, sebbene una certa accelerazione e gigantismo dell'onda appaiano incontestabili e, come si può e deve dire in questo caso, sotto gli occhi di tutti. Ciò che ci colpisce è spesso l'iperproduzione d'immagini, ma andrebbe ricordato che tante epoche hanno conosciuto questa ipertrofia e produzione accentuata di immagini (furono iperproduzioni di immagini anche quelle del Medioevo, Rinascimento o delle civiltà cosiddette precolombiane, solo per citare alcune periodizzazioni note?). La tecnologia è forse la sola forma di universalità moderna e la produzione di immagini ha strettamente a che fare con la produzione di liquidi identitari. Non occorre aggiungere molto per finire in terreni che sono anche segnatamente politici e quindi, ancora, centrali nel nostro vivere. Interrogarsi allora sul futuro dell'immagine è interrogarsi sull'immagine e basta, senza troppe distinzioni tra passato-presente-futuro, e diventa un gesto filosofico che intende avvicinarsi all'ontologia dell'immagine stessa, senza mezzi termini. Il futuro dell'immagine (Il Mulino, pp. 152, euro 15), titolo di questo interessante saggio di Federico Vercellone, docente di Estetica all'Università di Torino, è quindi un titolo parzialmente depistante e dettato forse da qualche ansia sulla vendibilità del libro. In realtà mi pare questo un libro ben lontano dall'essere "instant" oppure saggio il cui valore sia destinato a scemare a causa dell'effimero interesse degli argomenti. Vercellone infatti, nella sua trattazione tutto sommato breve (breve considerando le miriadi di aperture del tema), riesce a porre l'immagine, sia questa un'ecografia d'ospedale o l'immagine diffusa da un gruppo terroristico, all'interno di un mutamento in atto e mai concluso che per sempre che coinvolge - ma sarebbe il caso di scrivere che "sconvolge" - i modi della trasmissione culturale. Sono temi noti, ma una delle diramazioni più feconde del libro riguarda il portato di omologazione (massificazione) che l'immagine in quanto dispositivo di riconoscimento ha trascinato con sé, in maniera del tutto accelerata dall'affermazione della camera obscura.

I modelli mimetici producono l'artificio e la finzione. Passando per queste considerazioni, presto si giunge a concepire l'immagine come plurima e plastica, sia essa letteraria, artistica, acustica o di altro genere. I mezzi dell'arte, la cui trattazione in uno studio del genere non poteva mancare, producono la finzione e non bisogna certo pensare, con un atto di tracotante hybris, che producano la realtà stessa. Vercellone ricorda infatti gli incubi di Mary Shelley, quando non riusciva a dormire pensando che il suo Frankenstein potesse, perdendo il corsivo che si applica ai titoli delle opere, diventare un Frankenstein "in tondo", cioè qualcosa di così prossimo a uno "statuto di realtà" e non di immagine soltanto. Chiaro è che per di qua passa buona parte del potere illusionistico dell'immagine e della capacità di mutare le nostre percezioni attraverso immaginari e immaginazione. Vercellone allora ricorda che il problema dell'immagine affonda diritto nell'inconscio e preconscio, e che le immagini, queste inquietanti e calamitanti "quasi-cose", vanno a smuovere, alimentandolo paurosamente, quell'immane fiume di fantasmi che scorre tra le epoche storiche e che inevitabilmente può andare a lambire la realtà che crediamo "conoscibile":

Il mondo percepito si presenta così come uno specchio fedele degli equilibri strategici del nostro io. Se abbiamo a che fare con un universo di immagini in grado di integrare tutti gli elementi della percezione sensibile, ecco che si produce in questo quadro uno sviamento che non riguarda più solo la percezione, ma addirittura l’identità di sé. E siccome l’io non vive senza un orientamento assiologico, quasi di conseguenza viene coinvolto anche l’universo morale. L’io che viene travolto dall'illusionismo, dalla trasformazione in immagine del mondo percepito perde ogni orientamento nel mondo e si addentra in una crisi nichilistica. In realtà a ben vedere, tutto questo dipende dallo statuto della realtà e della finzione e dal loro limite reciproco. Infrangere quest’ultimo comporta per l’identità soggettiva una minaccia e una sfida. (p. 42)
Sullo sfondo della trattazione, lo avrete già indovinato, si situa anche il consueto (eterno?) scontro tra parola e immagine. Uno dei meriti di questo lavoro è però anche quello di relativizzare la portata di questo presunto scontro. Si tratta forse di scontro se consideriamo i due dispositivi in questione come concorrenti nei modi della trasmissione culturale e si è allora da un pezzo abituati a dire che l'immagine lo ha ampiamente vinto. Tuttavia quello che suggerisce l'autore è che la partita vera non si giochi tanto lì (o solamente lì), bensì nella riconsiderazione del portato identitario e allo stesso tempo mistificatore dell'immagine, finanche, come si è già intuito dal passo sopra, all'impostazione di un discorso che riguardi l'etica dell'immagine (sia detto tra parentesi che, a più varie riprese, questo libro torna utilissimo anche per ridefinire la controversa questione del paesaggio, della quale ci siamo occupati qualche tempo fa parlando di un libro di Matteo Giancotti intitolato Paesaggi del trauma, una questione che per forza deve confrontarsi ripetutamente con il problema dell'immagine, fino all'angosciosa e iperreale "prospettiva simbolica" di un paesaggio digitale e digitalizzato). Quello che ci aspetta allora è un mondo dove le immagini funzionano come ambienti culturali e in quanto "ambienti" acquistano una dimensionalità che si deve continuamente confrontare con il soggetto schermato, cioè la debordante novità apparsa e consolidatasi negli ultimi due secoli. I soggetti schermati, senza troppi giri di parole, siamo noi, quasi per intero. In quest'ottica, un libro come Il futuro dell'immagine risulta d'aiuto per leggere i fenomeni che più caratterizzano e spaventano la nostra epoca, come il terrorismo, ad esempio, che in fondo non è così complesso da capire, se partiamo da una posizione come la seguente:
Il rischio di iconoclash generalizzato si fa sempre più potente ed è in parte già in corso: a distanze geografiche sostanzialmente nulle si sono andati insediando gruppi con identità diverse, scarsamente flessibili e poco in grado di realizzare un reciproco, profondo contatto dialettico le une con le altre in quanto esse non si formano e consolidano attraverso il logos discorsivo che media le differenze, ma attraverso l’identità più immediata dell’immagine. Il terrorismo, da questo punto di vista, è dentro di noi; non è un conflitto politico o di civiltà, bensì uno scontro simbolico tra identità embedded, impermeabili l’una nei confronti dell’altra, dunque scarsamente in grado di stabilire un contatto dialettico fecondo. Potremmo definirlo come un conflitto pubblico che nasce nel privato, in una sede domestica dominata dai media dell’immagine. Esso è provocato da questa nostra civiltà e dal suo scivoloso pluralismo che vive e agisce sullo stesso schermo, e che produce immagini del mondo cui i soggetti si attaccano famelicamente per bisogno indotto di ritrovare sé stessi metabolizzando i simboli che fondano l’autoriconoscimento di gruppi e comunità. (p. 98)
Come si può evincere da queste poche citazioni, Il futuro dell'immagine di Federico Vercellone è uno studio sobrio e circoscritto del tema principe dei nostri anni e riesce ad aprirsi ad una pluralità di suggestioni che non mancheranno di smuovere chi affronterà le sue pagine cesellate tra logos, riflessione estetica, arte, stilemi e iconoclasmi. Il problema ontologico dell'immagine ci riguarda tutti e ciò appare evidente, oserei dire persino a un livello di percepito medio ormai. Le stesse questioni poste dalla politica, dall'arte virtuale o dai nuovi media, da cui questa nota è partita, rivendicano una revisione attenta dello statuto dell'immagine nell'epoca attuale e nella strada che porta verso questo scopo il libro costituisce una soglia portante di riflessione. Tuttavia, come detto, lo studio di Vercellone si pone efficacemente in ascolto e osservazione partecipe di una molteplicità di altre istanze che premono e che vanno finalmente affrontate con il bagaglio dell'aggiornata riflessione estetica.




Il grande fagiolo riflettente di Chicago, Cloud Gate di Anish Kapoor. 
L'opera, assieme ad altre, è presa in considerazione nel libro di Vercellone, 
nel quale è ripresa anche in copertina.
(Fonte dell'immagine Flickr)

lunedì 7 agosto 2017

da "Verbale" di Michele Ranchetti

Una poesia da #68


Con questo post si chiude la miniserie di tre articoletti dedicati ai libri di poesia di Michele Ranchetti. I precedenti due, su La mente musicale (Garzanti) e su Poesie ultime e prime (Quodlibet, postumo), si possono ripescare facilmente cliccando qui. All'appello mancava soltanto il libro forse più noto di Ranchetti, vale a dire Verbale, pubblicato da Garzanti nel 2001 (pp. 146, euro 14,98) e vincitore del Premio Viareggio-Repaci. Il volume è composto di poesie scritte dopo quelle contenute ne La mente musicale. Anche in questo caso Ranchetti ci ricorda nella nota conclusiva che l'ordinazione cronologica delle poesie non pretende di offrire un itinerario. Scrive il poeta che le poesie "sono, come le altre, abbreviazioni di un percorso conoscitivo, fissato in punti di illuminazione e di ombra, dove anche le ombre, i punti morti di luce, si connettono l'un l'altro a formare momenti (frammenti) di chiarezza non trasmettibile, né convertibile in una forma diversa (filosofica, religiosa, estetica)." 

(In via eccezionale, per la chiusura di questa miniserie, ho scelto tre brevi testi e non due o uno soltanto.)





Fra me e te c’è qualcuno che guarda
che ascolta e grida, teme e gioisce.
Non sono io né te, ma di me è parte
ed a me corrisponde, come a te. È fra noi due
colui che colma l’assenza o la nega.

*

Non puoi misurare di nuovo
il più e il meno di affetto
di chi ti è contro, il suo essere
assente a te per diritto alla vita:
non è un giudizio, è una diversa
misura, e non puoi credere
di essere nel giusto: non lo è mai 
chi è solo.

Ho paura dei figli, del loro
giudizio senza tempo e ragioni, 
dell’ostile che in essi
regge la vita e le dà corso
nel vivere all’oscuro
degli affetti innocenti.

*

«È ancora morto?» chiede del cane
morto da mesi. Solo
un bambino può credere la morte
parte del tempo di fronte
al destino infinito mentre a noi
tra l’una e l’altra sorte
s’accende il divenire della morte.

giovedì 3 agosto 2017

da "Giacinta la rossa" di José Moreno Villa

Una poesia da #67


Si può trovare ancora in qualche circuito dell'usato (e nelle biblioteche, naturalmente) il libro Giacinta la rossa di José Moreno Villa (Malaga, 1887 - Città del Messico, 1955). Il volume fu pubblicato da Einaudi nella "Collezione di Poesia" (oggi detta "Bianca") nel 1972 nella traduzione dell'ispanista Vittorio Bodini. Mancato chimico a Friburgo, poi studente di storia dell'arte e abitante della Residencia de Estudiantes, dove fa gli incontri intellettuali più significativi, tra cui quelli con Rafael Alberti, Salvador Dalì e Federico García Lorca, Moreno Villa fu a suo modo "un eroe dei due mondi", tanto precoce e assidua fu la sua frequentazione col continente americano, sia negli Stati Uniti, sia nel Messico, dove si spense. 

Jacinta la pelirroja apparve in spagnolo nel 1929.




I cavalli non sono fatti per te


Né le briglie né le staffe.
Non sai né saprai montare mai quell’energia.
Rido come se tu volessi galoppare sulle nuvole
o guidare le onde del mare.
Giacinta, mostrami pure la vanità dei miei sforzi.
Ridi dell’impossibile maniera di montare,
ridi della mia scarsa destrezza
in rapporto al traguardo e al mezzo.
E poi, Giacinta, poi,
come veri sportivi,
ridiamo della scoperta.
Saremo più forti 
dopo aver misurato la nostra debolezza.


No se hicieron para ti los caballos


Ni las bridas ni los estribos.
No sabes ni sabrás montar esa fuerza.
Me río como si quisieras galopar sobre nubes
o guiar las olas del mar.
Jacinta, señálame tú mi empeño vano.
Ríe tú de la montura imposible,
ríe de mi desmaña
en relación con la meta y el móvil.
Y luego, Jacinta, luego,
como sanos deportistas,
riámonos del descubrimiento.
Seremos más fuertes
al medir nuestras debilidades.