venerdì 30 giugno 2017

Lo Specchio Mondadori rilancia con discutibili richiami "vintage" alla propria storia

Covertures #15



Come già saprà chi presta qualche attenzione alle nuove uscite di poesia (uno zoccolo "tenero" di lettori?), la collana di poesia "Lo Specchio" di Mondadori è stata recentemente oggetto, dopo un periodo silenzioso, di un rilancio che ha previsto una nuova gabbia grafica, nuova carta, nuova impaginazione dei testi (nuova rispetto alle ultime impaginazioni della collana). I tre titoli che accompagnano questo rilancio sono
 I canti di Mihyar il damasceno di Adonis, Tutte le poesie (1969-2015) di Milo De Angelis e Ipotesi di felicità di Alberto Pellegatta (titolo che mi ha improvvisamente ricordato il Prove di libertà di Stefano Dal Bianco). Questo breve intervento non discute i contenuti dei tre libri, appartenenti ad autori rilevanti per motivi diversi, bensì il modo in cui questo tentativo di rilancio della collana si pone attraverso scelte che investono i paratesti editoriali e l'impaginazione della collana stessa. Se la grafica delle nuove copertine, per quel che mi riguarda e per quel che vale, ha superato positivamente il test della "prima vista" (sopra avete un teaser, un classico wall delle copertine delle prime uscite), quello che mi ha convinto assai meno è l'operazione tutta chiusa tra nostalgia della heritage (aziendale) e richiami vintage che ha accompagnato l'interno, dai paratesti all'impaginazione tipica della serie più fortunata de Lo Specchio (per capirsi: quell'impaginazione secondo cui una poesia di soli dieci versi poteva presentarne quattro nella pagina di destra e finire con gli altri sei versi nella successiva pagina pari di sinistra, con il titolo staccatissimo dal primo verso). Si tratta di un mood, come direbbe qualche arredatore abbronzato o qualche pubblicitario, senza dubbio ricercato. E il testo che accompagna l'apertura dei volumi e l'operazione-rilancio è tutto incentrato sulle passate glorie della collana di poesia mondadoriana e ricorda persino un frammento testuale che su questa collana compariva all'altezza degli anni Quaranta. Ecco un pezzo del nuovo testo di accompagnamento che si trova all'apertura dei volumi:
Negli anni ’40, sull’aletta de “Lo Specchio”, l’Editore scriveva: «Di qui si irradia il canto della nostra lirica, qui giungono le voci nuove della giovane poesia e si affiancano ai grandi nomi già noti in tutto il mondo continuando la gloriosa tradizione italiana attraverso i secoli e i tempi». 
Tutto questo accade come se, in piena epoca di adorazione del vintagealmeno per i frigoriferi, le auto e altri oggetti di design e consumo, anche la poesia potesse passare di lì per provare a tornare X (X sta per un aggettivo a piacere, ma lascio immaginare quali). 

Orsù, bene, Alfonso Berardinelli forse dovrà rivedere i suoi interventi sulle collane di poesia che chiudono. Berardinelli a parte, no, non mi pare così bene. Questo è quanto, per quel che riguarda la prima impressione. Ma io sono di parte, come del resto chiunque legga questo breve scritto e chiunque prenda in mano i libri di questa rinnovata collana poetica. Ripeto, qui si discute solo del modo di porsi attraverso strategie paratestuali e di impaginazione e non dei libri pubblicati; inoltre si vuole mettere in dubbio l'opportunità di rievocare quella storia editoriale e aziendale. Alla fine, l'impressione che ho avuto sfogliando un esemplare della nuova collana in libreria è uno sconsolato acronimo che usava spesso mio fratello allargando le braccia: NCSP (Non Ci Siamo Proprio). E anche questo è detto, per quel che vale. Non penso sia lontano il momento in cui il libro di poesia sarà solamente uno dei tanti oggetti di design. Ma allora, forse, tornerà a vendere?

mercoledì 28 giugno 2017

Senza colpa e assoluzione: i saggi di Giovanni Turra raccolti in volume (con un estratto su "Meteo" e "Sovrimpressioni" di Andrea Zanzotto)

Cleup ha raccolto in un recente volume intitolato Senza colpa e assoluzione. Scritture e scrittori a Nordest negli anni Duemila (pp. 196, euro 16) alcuni saggi del poeta e critico Giovanni Turra. Denominatore comune di questo libro è, come da sottotitolo, l'area di provenienza degli autori trattati. Si attende a breve un nuovo libro di saggi critici di Turra dove lo sguardo inevitabilmente s'allargherà e ricordo allora che uno degli autori più assiduamente frequentati dall'autore è il ligure Francesco Biamonti, per il quale possiamo ricordare Colloquio con F.B. (in Francesco Biamonti, Scritti e parlati, Einaudi, 2008). 

La natura di questi scritti, che riguardano tra gli altri autori quali Ferruccio Brugnaro, Luciano Cecchinel, David Maria Turoldo, Giuliano Scabia e Gian Mario Villalta, ha passi e moventi diversi. Veri e propri saggi convivono qui con più concentrate note a margine o prefazioni. Il titolo che presta il cappello a questa raccolta di scritti presenta un motivo di curiosità, ponendo lo sguardo in una sorta di limbo dove né la colpa né l'assoluzione riescono a soverchiare. Più che l'area di provenienza, è quindi questa sorta di categoria critica (o questa constatazione di "sospensione" o epochè) un denominatore comune delle scritture studiate da Turra, estendibile a macchia sulle nostre dubitanti mappe letterarie.

Per gentile concessione dell'autore si pubblica come estratto *.pdf un contributo su una stagione particolarmente viva e interessante della poesia di Andrea Zanzotto, relativa al lustro 1996-2001. Il saggio si intitola "Gli aforismi improbabili di Andrea Zanzotto. Per una lettura di Meteo e di Sovrimpressioni", vale a dire le raccolte del poeta di Pieve di Soligo uscite rispettivamente nel 1996 (per Donzelli) e nel 2001 (per Mondadori).


 G. Turra, Gli aforismi improbabili di Andrea Zanzotto. Per una lettura di "Meteo" e di "Sovrimpressioni"

sabato 24 giugno 2017

Jisei. Le poesie giapponesi dell'addio a cura di Ornella Civardi

"Poesia di commiato, composta nell'imminenza della morte appositamente perché sia ricordata come l'ultima, e dunque investita di un particolare rilievo. A seconda dello schema metrico e compositivo che utilizza, può essere jisei no ku (se in forma di haiku), jisei no uta (se in forma di tanka), jisei no shi (se in forma di kanshi." Questo ci ricorda l'utile "Glossario" posto in coda al volume Jisei. Poesie dell'addio da poco pubblicato da SE per la cura di Ornella Civardi (pp. 127, euro 14). Si sarebbe portati a ipotizzare sempre chissà cosa per una poesia scritta (dipinta?) in prossimità di uno dei due momenti inaggirabili della vita, il solo dei due, tra altro, in cui l'uomo abbia già fatto una certa conoscenza profonda del linguaggio. In realtà, chi leggerà questi cento componimenti che spaziano dal 900 circa (con il primo di Ono no Komachi) al 1970 (con l'ultimo di un a noi più familiare Mishima Yukio) troverà di tutto, spesso anche l'ironia colta poco prima di ributtarsi nel fiume della natura dal quale il corpo è venuto, poco prima di smettere di essere "soggetto". (Tra parentesi: verrebbe da soffermarsi su questo "soggetto": in Occidente, quanto ci interessa la letteratura come "soggettiva", "confessione", portatrice di una "visione"? Non è una critica all'Occidente, ma solo una constatazione.) E non è una pratica abbandonata quella dei jisei, se anche il regista e sceneggiatore Satoshi Kon ha fatto parlare di sé lasciando il suo jisei quando è morto nel 2010 a 47 anni. Il punto non credo sia acuire la sensibilità - o pensare a una sensibilità acuita - soltanto perché c'è di mezzo quel momento di commiato dalla vita. Se la poesia è legata tanto alla morte quanto alla vita è perché, in qualità di buco ritmico della lingua, rinvia continuamente a entrambe, o per meglio dire è entrambe. Il gesto di scrivere "l'ultima" e riporre il pennello è chiaramente un gesto dell'ambizione, di quell'ambizione stessa che è spesso travisata, ma che resta il motore immobile di ogni esistenza umana (e bisognerebbe provare a discutere a lungo dell'ambizione, io penso).

Editorialmente parlando, con questo libro ritorna il numero 100 per un libro dedicato alla poesia giapponese, come l'indimenticato Cento haiku di Guanda curato da Irene Iarocci e accompagnato da una nota ficcante di Andrea Zanzotto. 
Ornella Civardi, che ha composto questo percorso in 100 stazioni, ricorda nella sua nota conclusiva che chi avrà la pazienza di scorrere lo sterminato repertorio di jisei potrà scoprire come nel corso dei secoli si sia evoluto il gusto estetico e come queste poesie estreme rivelino l'emergere di mode e filoni letterari, mutamenti della società, della sensibilità e del rapporto con la morte. Tutto ciò si registra in un'alternanza di registri e toni, con un incremento sensibile dei componimenti di donne all'altezza del nono e decimo secolo. L'innesto del buddhismo, che in Giappone penetra verso il sesto secolo, costituirà un flusso fondamentale per lo sviluppo di questa pratica poetica così intima con il sentimento di transitorietà e trascolorazione della vita e pure con un certo languore, atteggiamento che chi frequenta la poesia giapponese, anche in traduzione, ha probabilmente ben presente. Ricorda la curatrice:
Mono no aware è letteralmente «il senso delle cose», sostanziato di empatia e nostalgia, che definisce questo sguardo languido di cui è pervasa tutta la letteratura giapponese degli inizi, incardinata sull'idea che solo la consapevolezza dell'impermanenza, e dunque dell'imminenza della perdita, possa liberare l'occhio dal velo opaco indotto dall'abitudine e renderlo finalmente limpido e profondo, capace di svelare la bellezza in tutto il suo fulgore.
Il campionario di immagini allora può andare a sovrapporsi con quello che già conosciamo dagli haiku e ci si potrà esercitare a riconoscere il kigo, la parola che colloca la poesia in un dato momento dell'anno, all'interno dei cicli della natura. In questo senso jisei è spesso poesia di commiato dal vedere e dalla vista. Qualche esempio? Ki no Tsurayuki nel 945:

Come la luna
che si compone sull'acqua
nella conca delle mani, 
questo mondo non sappiamo
se sia o se non sia.

Come ricordato, i motivi e i toni sono tanti, e con un salto al 1781 leggiamo Gessen Zenne che scrive:

Alla sbarra
        del giudizio finale
nemmeno provo
         a occultare le colpe.
L'estremo
           dei miei crimini
sarà assassinare
         il Re degli Inferi.

Oppure c'è il sorprendente jisei di Itō Enryō con la sua scimmia, e la traduzione che precisa "chiara" per l'acqua autunnale, dovendo specificare e aggiungere qualcosa che la poesia giapponese non ha bisogno di specificare quando si riferisce a "acque autunnali":


Acqua chiara d'autunno,
per smaltire la scimmia 
di questa vita.

Acque diverse infine in questo esempio di Dazai Osamu, autore del bel libro Il sole si spegne (lo trovate nel catalogo Feltrinelli), che per prendere commiato scrive:

Acque opache
dove nemmeno il glicine
specchia più i grappoli,
di questo lago battuto
dalla tempesta.

Anche se scritte appositamente per degli haiku, ritornano in mente le righe che Zanzotto dedicò alla sua frequentazione della poesia giapponese, a quel "non-rumore del senso che si affaccia dentro il nonsenso della natura quasi a volerlo preservare, perché la natura deve ‘abitare’ in esso per restare madre di tutti i sensi”. E ad un livello ulteriore, terminato questo percorso in cento tappe proposto da Ornella Civardi, giunge anche il momento di farci qualche domanda in più sul morire e su come sta cambiando. Perché magari pare di no, ma muta anche il morire (e possiamo accorgercene soltanto finché siamo in vita).

mercoledì 21 giugno 2017

I cambi di stagione: solstizio d'estate


In occasione di solstizi o equinozi, quindi al massimo quattro volte l'anno, riprendo qui un testo dagli archivi. Specifico solo il caso dei testi editi. Le immagini che accompagnano questi post sono tagli e rotazioni (di 90°, 180° o 270°) dalle tavole.

Il testo che segue si trova nel libro Pertiche (La Vita Felice, 2012).


DI NOTTE


Appena sveglio, di notte, quasi mattina
ti viene
da pensare che sei a questo mondo.
Sembra di no, ma di notte la testa
capisce che hai delle
ossa dentro che ti parlano di te e
delle tue tante età, come quando
in bicicletta, una volta soltanto, ti è parso
di aver capito qualcosa, perché esiste quello
e non niente, perché eri tu là
vicino una mura in sassi con una bici
sopra la riga bianca che ti faceva
dimenticare i pensieri più di questa terra,
che io calpesto, come la lepre che faccio scappare,
come gli animali che scappano
o quelli che mi vengono addosso.


sabato 17 giugno 2017

"A letto non si pensa al futuro" di Lucia Brandoli

Vent'anni fa - era il 1997 e l'autrice del libro di oggi aveva 8 anni - è uscita una raccolta di racconti di ispirazione autobiografica di Emidio Clementi, "cantante" e bassista della formazione dei Massimo Volume. Il libro, pubblicato da un bell'editore scomparso, Gamberetti, era intitolato Gara di resistenza (sottotitolo: Racconti, poesie ed interventi dalle periferie metropolitane) e conteneva una nota di giustezza di Claudio Piersanti. In questa nota lo scrittore di Canzano suggeriva che nei racconti di Clementi "c'è una atmosfera ricorrente, una sensazione: dev'essere già successo qualcosa, da queste parti". Questa sua considerazione è tornata in mente leggendo i 18 racconti di A letto non si pensa al futuro di Lucia Brandoli (Pendragon, pp. 122, euro 13). C'è qualcosa che però non torna: i racconti di Lucia Brandoli non sono quel che si può dire autobiografici, non nel senso di Clementi almeno. In realtà qui andrebbe aperta una lunga parentesi, perché quello dell'auto/bio/grafia resta un tema apertissimo e onnipresente nonché, al di fuori dalla letteratura di genere, spesso travisato. Dagli autori di prosa, la concessione all'auto/bio/grafia è spesso guardata con timore, mentre diverso pare risultare il discorso per gli autori di poesia, che nell'auto/bio/grafia sguazzano da un bel po'. In realtà non possiamo disinteressarci dei tre momenti che compongono la parola auto-bio-grafia. Insomma, è un discorso che riguarda tutti o non riguarda più nessuno (propendo più per la prima, e più che interessarci al voyeurismo autobiografico dovremmo interessarci delle immagini che lavorano in una data opera che scrive comunque una vita, non importa quanto sovrapponibile a quella dell'autore). Ad ogni modo, per tornare a quell'annotazione di Piersanti, i racconti di quest'autrice nata nel 1989 a Modena non trasmettono nemmeno quella sensazione di qualcosa che sia già successo del quale si sconta, si espia o più semplicemente si vive un poi. E allora perché quella frase di Piersanti ha fatto ritorno alla mente? Credo sia successo per forza d'opposizione, pari e contraria, perché più volte in questi brevi racconti si ha la sensazione che debba ancora succedere qualcosa, da queste parti ("parti" spesso geolocalizzate nel continuum aberrante della megalopoli padana). Sia chiaro, qualcosa effettivamente succede: un incontro tra uomini o animali, una violenza gratuita su un cane, un ingegnere alle prese con un'odissea di spesa e incapace di ritrovare il parcheggio, la "vita degli oggetti" di tutti i giorni esplosa tra le nostre vite, diverse situazioni e descrizioni di contesti famigliari (che sono tra l'altro uno degli aspetti più interessanti del libro). Tuttavia leggendo si fa spazio la convinzione che questo libro raccolga momenti in cui qualcosa è già successo, ma soprattutto momenti che di certo stanno accadendo prima di altri. L'autrice disegna una cornice di tempo in cui succede poco-niente, ma l'allungarsi lento di un'ombra al calare del sole, la persistenza di un rumore o di un umore, il disperdersi di un suono di campane accadono assieme a qualcos'altro.

Non è nello spazio della memorabilità insomma che questo esordio gioca una sua scommessa (esordio in prosa, visto che l'autrice ha scritto il libro di poesia Anello di prova). Racconti come Neve o il conclusivo Places Where Spring Happens, tra i più lunghi della raccolta, si impongono a un'attenzione per il modo di fregare blandamente il lettore con lievi inavvertiti scostamenti di montaggio, con la disseminazione di ellissi minime eppure sensibili nella costruzione del passo del racconto. Questo per stare sul lato della tecnica narrativa, mentre sul versante dei temi o dei contenuti che dir si voglia, non saranno tanto le scene più crude (di sesso o violenza, reale o verbale) a sorprendere maggiormente, bensì l'attenzione davvero millimetrica alle relazioni, agli impliciti, a quanto vi è di marcio o vivo e vitale in queste, alla trasposizione di quelle "intercettazioni ambientali" che il raccontare impagina e che sono uno degli aspetti più riusciti. Oserei dire che a dispetto della crudezza di certi racconti, che non sorprende nemmeno pensando alla giovane età dell'autrice (del resto in quale mondo pensiamo vivano o siano cresciuti "i giovani"?), colpisce più un misterioso richiamo criptato alla tenerezza annegato in una propagante apatia. Verrebbe da dire che questa è la cifra o quantomeno una cifra e la miscela che ne esce non è né consolante ne sconsolante: è la miscela che è, e per ora può bastare dire questo.

Al fondo, presente nelle nostre teste e tra i moventi di questi racconti, credo continui a campeggiare un gigantesco interrogativo su quelle che un tempo si chiamavano le epoche di una vita, con i loro confini più o meno permeabili, più o meno elastici. Sempre al fondo, inoltre, resta lo spettro di un nuovo tempo dove queste epoche iniziano ad avere meno senso - o semplicemente un senso diverso - e dove infanzia, adolescenza e la così detta età adulta convogliano le loro linfe e, parimenti, i loro liquami di scolo e veleni verso un unico mostro-corpo, che, iniziando a invecchiare, rischia di perdere l'appuntamento con gli interrogativi perenni del vivere, quelli che hanno occupato a lungo Leopardi, per capirci: il piacere, la noia, la felicità e persino la ricordanza. A questo può capitare di pensare se leggerete questi 18 racconti (e naturalmente vi interrogherete pure sul senso di quel titolo, che mi pare centrato). 

(Per chi vuole, il già citato racconto conclusivo Places Where Spring Happens si può leggere qui.)

martedì 13 giugno 2017

"Paesaggi del trauma" di Matteo Giancotti

Paesaggi del trauma di Matteo Giancotti (Bompiani, pp. 272, euro 12, in libreria in questi giorni) è uno spoglio ragionato e aggiornato di scritture letterarie, diaristiche, memorialistiche e saggistiche volto a focalizzare un arduo binomio inciso dal titolo sul quale sarà necessario ritornare più volte. Prima di proseguire, serve introdurre un ulteriore binomio composto da Grande guerra e Resistenza quali luoghi primari sui quali si concentra lo zoom dell'autore. Naturalmente fermarsi a parlare di spoglio sarebbe ingeneroso e riduttivo, perché Matteo Giancotti ha cercato, sin dalle prime battute, di trovare la quadra per far sì che lo studio non si riducesse ad una rassegna su temi e autori evidentemente ritenuti significativi ed esplicativi dell'oggetto della ricerca, ma diventasse la proposta di un metodo per avvicinare i "paesaggi del trauma" che continuamente osserviamo nel prepotente ribollire del reale e della storia. Inoltre, va detto in avvio che il campione di testi su cui l'analisi si concentra è davvero ampio e che per uscire dal rischio di un'opera chiusa su due momenti storici per definizione irripetibili, l'autore si è aperto a un'altra guerra, non di molto lontana alla Prima guerra mondiale dalla quale il volume prende le mosse e ancora più vicina al nostro tempo. Verso la fine infatti subentra un tentativo di sintesi, o quantomeno di proficuo spostamento, con l'introduzione di un terzo vertice rappresentato dal rinvio al magmatico Zona di Mathias Énard (uscito nel 2008 e pubblicato in Italia nel 2011 da Rizzoli nella traduzione di Yasmina Melaouah), opera-fiume nella quale attraverso il protagonista, la spia Mirkovic, "ripassiamo" in modo del tutto sorprendente i conflitti e le zone di guerra del Novecento, con particolare riferimento all'area balcanica. 

Il rischio di stasi teorica che può correre uno studio sul paesaggio ("land-scape" in inglese, e la statica veduta è quindi centrale e in agguato) è conosciuto in anticipo. Così come nello sviluppo di quel metodo irripetibile dei primi studi storico-letterari di Mario Isnenghi sulla Prima guerra mondiale, la mole di materiali sondati in questo libro detta una propria legge di analisi e impone un proprio metodo, che si svelerà via via. In fondo, è questa una rivendicazione di autonomia metodologica non lontana da quella che guidava critici come Baldacci o Garboli. Il risultato dello spoglio è allora fatto reagire con l'impostazione teorica di fondo, che ci rimanda ancora una volta al binomio del titolo, tanto da far risuonare una domanda a due tempi: come possiamo studiare i paesaggi attraverso le perforazioni dei traumi individuali e soprattutto collettivi e cosa velano, ancor più di quanto svelano, i paesaggi? Aggiungerei una domanda più radicale e destabilizzante: quanto possiamo pretendere ancora dal trauma affinché ci porti a comprendere sia la memoria storica sia il contemporaneo? E siamo certi che alla fine non sia altrettanto corretto, se non addirittura più promettente, provare a parlare di un trasversale "trauma del paesaggio"? A ben pensarci, potrebbe essere proprio la scoperta del paesaggio a divenire l'evento traumatico in sé, ben prima dei traumi storici che sul paesaggio si scatenano, poiché quel "fascio di percezioni" che il paesaggio è, mediante determinati filtri, arriva a far breccia e traforare la coscienza individuale e collettiva.

Da che cosa prende le mosse uno studio del genere? Giancotti opportunamente scrive e circoscrive così il suo oggetto, già nella prima parte dedicata alla Grande guerra:
il concetto stesso di paesaggio, almeno nell’ambito dell’espressione scritta, ha a che fare più con la rielaborazione culturale che con l’esperienza (e l’espressione) diretta, essendo appunto il suo ambito una zona di incontro tra esperienza, rappresentazione e memoria culturale: è fisiologico che lo si trovi rappresentato tra le pagine degli scriventi colti più che in quelle dei “semicolti” o degli incolti (p. 127).
Poi, nella seconda parte dedicata alla Resistenza, ritorna su questi passi e ribadisce:
Anche al di là dei valori condivisi che la società riconosce  alla letteratura, resta il fatto che senza letterarietà [...] nemmeno il paesaggio esiste. Perché il paesaggio emerga nella scrittura è infatti necessario che agisca il filtro psicologico e culturale del soggetto, la cui presenza emerge non solo nelle opere ad alto tasso letterario, dove in effetti siamo abbastanza sicuri di incontrare l’io, ma anche nelle scritture documentarie (di Chiodi e Revelli per esempio) che più tendono apparentemente a cancellare l’istanza soggettiva, conservandola spesso implicitamente (p. 207).
Ma ritorniamo al titolo, ai paesaggi (plurali) e al trauma (quasi sempre al singolare quando sta in discorsi di letteratura). Con il primo termine rientriamo in un terreno insidioso e ci rifacciamo, con l'autore, a uno studioso come Michael Jakob - autore di opere quali Il paesaggio, Paesaggio e letteratura e Paesaggio e tempo - il quale sintetizza il paesaggio come qualcosa che nasce dall'incontro di natura e soggetto. Ma è soprattutto sul fronte del nostro secondo termine, "trauma", che si registrano le scosse più interessanti ancorché controverse e problematiche degli ultimi studi critici. Basti ricordare il discreto successo di un saggio di Daniele Giglioli intitolato apoditticamente Senza trauma. Scrittura dell'estremo e narrativa del nuovo millennio (pubblicato da Quodlibet nel 2011 e ricordato da Giacotti in sede introduttiva), per capire che qui la chiave che intona il discorso riporta il trauma in un suo alveo originario: in questo libro si parla di paesaggi dove sono accaduti eventi traumatici per i singoli o per intere collettività e dei precipitati nella scrittura di testimonianza, antecedenti insomma allo spoglio sugli anni zero compiuto da Giglioli. Del resto, per stare alla Prima guerra mondiale da cui il libro parte, come mostrò splendidamente L'officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale di Antonio Gibelli (Bollati Boringhieri, prima edizione 1991), quel conflitto fu innanzitutto un'immane nuova esperienza di sconvolgimento e non vi fu livello dell'esistenza umana che non venne investito o persino rivestito. Tutto ciò premesso, è chiaro che il binomio del titolo, vero pendolo su cui s'inossa la trattazione di Giancotti, è la chiave di volta teorica per domare un oggetto di ricerca che resta comunque capriccioso, refrattario e persino recalcitrante. Insomma, non è per niente facile tenere testa a qualcosa che, come abbiamo letto, "non esiste" e che però è segnato da un trauma. E in secondo luogo, non è affatto agevole collocare il paesaggio, quale "fascio di percezioni", in un alvo che è sia individuale sia collettivo senza affrontare delle aporie inaggirabili, senza chiedersi qual è la giusta teoria per il nostro "land-scape" trivellato di traumi.

Uno dei meriti del libro coincide con il saper sollevare alcune giuste domande sui due termini del binomio e soprattutto sul valore e la direzione di quel genitivo espresso dal titolo, quasi potesse essere letto come genitivo soggettivo e oggettivo (i paesaggi dove il trauma agisce ma anche, forse, il trauma agito dai paesaggi). Giova all'impostazione l'aver scelto per le prime due parti momenti storici profondamente diversi, nei quali sia "paesaggio" che "trauma" occupano postazioni a volte opposte: se nella Prima guerra mondiale siamo in un conflitto fatto di "linee del fronte" e "zone di guerra" (torna la parola "zona", come nel titolo di Énard), nel caso della Resistenza passiamo alle macchie puntiformi della guerriglia, alla Resistenza quale "fusione di paesaggio e persone" nelle parole di Italo Calvino, a un paesaggio sparso dove la natura torna a essere protezione e difesa dalla violenza (protegge anche una trincea, in realtà, ma solo nell'attesa dell'assalto). Ed è qui che il corpo a corpo con le suddette aporie avviene e subentra la necessità della critica, che è sempre chiamata a distinguere; così fa l'autore, distinguendo paesaggi e situazioni del suo nutrito campione e anche, cosa non più comune a tutti i critici, stabilendo un ordine di grandezza tra gli autori proposti (non un canone, bensì una più utile scala). Un libro è poi anche quello che suggerisce, gli interrogativi che implicitamente pone, quasi adombrandoli. E allora verrebbe da domandarci quale sarà il nuovo "trauma del paesaggio" (o "paesaggio del trauma"), se potrà somigliare da vicino all'inferno del diorama turistico internazionale o all'"angoscia di un paesaggio digitale" (per citare una canzone dei Massimo Volume). La distinzione sopra ricordata tra semicolti o incolti probabilmente varrà sempre meno, così come dovremmo rivedere il concetto di letterarietà, perché il paesaggio è diventato ingrediente trasversale del turbo-bio-capitalismo e come tale s'impone ai futuri studi, inclusi quelli di natura storico-letteraria. Sempre attuale allora quella domandina: che fare?

Tornando al volume e alla sua strutturazione, se nella prima parte dedicata alla Grande guerra fanno capolino Serra, Ungaretti, Lussu, Sbarbaro, Comisso, D'Annunzio, Marinetti, Puccini, Antonio Baldini di Nostro purgatorio, in quella dedicata alla Resistenza la coppia primaria Fenoglio-Meneghello è affiancata da numerosi inserti dedicati a Viganò, Del Boca, Sogno, Zangrandi, Fortini, Zanzotto, Cecchinel de Le voci di Bardiaga, Caproni e da un efficace invito a ripensare il lascito di Cesare Pavese (per tornare alla scala, diversa dal canone, non proprio un ridimensionamento è quello che riguarda lo scrittore piemontese, ma un'ammissione di preferenza per le vie percorse da altri autori, rispetto al suo fascinoso trattamento mitico della violenza de La casa in collina). Giova in tutto ciò la scrittura che ha governato questo spoglio, prosa tattile, in grado di riconoscere asperità e texture al passaggio delle mani. Le pagine contengono anche alcune utili riflessioni su una sorta di sperequazione dei generi letterari che attraversano il campione della ricerca: nella parte resistenziale, la poesia ad esempio scompare quasi del tutto anche tra gli stessi poeti (oppure è di molto successiva, come per Cecchinel). Lasciamo al lettore la possibilità di scoprire le considerazioni che si fanno in merito a questo fatto.

Giancotti, studioso di molti pezzi importanti del Novecento tra cui Rebora, Valeri e Zanzotto, ha pure lui "paesaggito" molto e si pone davanti a questo "infinito assente, infinito accoglimento" (così Zanzotto si riferisce al paesaggio nella poesia "Ligonàs" di Sovrimpressioni) con le spine teoriche di chi riconosce che siamo solo all'alba di una nuova serie di studi. Non sarà un caso che, proprio per questo motivo, una primissima cosa da fare, tanto semplice quanto necessaria, è verificare le occorrenze della parola 'paesaggio' nei vari autori (Giancotti lo aveva fatto anche in un saggio sul paesaggio in Goffredo Parise contenuto nel numero monografico della rivista "Riga" dedicato allo scrittore veneto). In effetti, se ci soffermiamo, possiamo convenire che la storia del paesaggio, perlomeno quello che si studia oggi sul versante della scrittura, è tutto sommato recente, mentre è assai più consolidata la vicenda del paesaggio all'interno dell'arte pittorica o architettonica (basti pensare a Palladio). Ciò che mi pare vada riconosciuto a questo studio è il vistoso spostamento del cursore su un asse precipuamente spaziale, prima ancora che temporale. Questo vale ben di più dell'insistenza sul trauma, parola della medicina che potrebbe presto o tardi esaurire il suo potenziale euristico, sia in presenza che in assenza di trauma. Il paesaggio è senza dubbio spazio rielaborato e filtrato, e lo possiamo far coincidere con uno spazio psicologico, quindi mentale e infine, in ultima analisi, ancora una volta temporale: un infinito assente e un infinito accoglimento, appunto, come ha giustamente sintetizzato Zanzotto, una necessità e un riflesso della psiche e del corpo, altrimenti destinati a implodere. A tal riguardo, Giancotti riporta un passo molto bello e emblematico nel quale si ritrae Sergio Solmi di ritorno dopo dieci anni sui luoghi della sua guerra (il Montello e Nervesa, che diventerà appunto Nervesa della Battaglia). Costeggiando quella che era la prima linea, lì dove le pendici del Montello sono prospicienti Colfosco e le colline di Susegana, Solmi di riflesso è ancora portato ad abbassare e ritrarre la testa tra le spalle per la paura di trovarsi allo scoperto fuori dalla trincea, forse memore degli spari che provenivano dalla riva sinistra del Piave.


domenica 11 giugno 2017

"Sonnologie" di Lidia Riviello: tre testi e la nota di Emanuele Zinato

Il sonno ha centrato l'interesse di più poeti che, negli ultimi anni, hanno licenziato dei libri che dal sonno vogliono partire o comunque al sonno vogliono ricondurre, alludere sin dal titolo. Penso a libri belli e convincenti come Nel sonno di Francesca Matteoni (Editrice Zona, 2014), Stesura di Manuel Micaletto (Prufrock spa, 2015) e a Sonnologie di Lidia Riviello (sempre per Editrice Zona, 2016, pp. 66, euro 10). Con riferimento a quest'ultimo libro, una sorta di inusuale dossier poetico davvero riuscito, si pubblica di seguito la nota di Emanuele Zinato e un breve campione di testi.



C’erano una volta l’inconscio e il sogno. Ora sono veri e propri ipermercati onirici, territori interamente colonizzati: gli utenti e i clienti, onnipresenti nei versi di Lidia Riviello, circolano infatti soprattutto lì, nel sonno, così come il flusso del valore e il vapore del capitale. Questa mutazione, indistinguibile dall’aria che respiriamo, è dicibile ormai pressoché esclusivamente mediante gli strumenti della poesia: straniamento, guerriglia linguistica. Sonnologie lo dimostra lapidariamente: denominando il fenomeno intero come “mercanzia onirica” (p. 21). Il termine ‘sonnologie’ qui sembra alludere a una qualche scienza che studia il sonno: i ritmi, le posizioni o il movimento delle palpebre. Si tratta in realtà della ricreazione linguistica di un mondo altrimenti indicibile: “sull’uso e non sul significato dei sogni/ lavorano incessantemente/ sottotitolando misticamente il profitto” (p. 18). Un arredamento della mente, un piano che si fa casuale, a “velocità commerciale”, capaci di darci intera la mappa o la segnaletica del presente: tra linee gialle da non oltrepassare, interni dell’Ikea, amministrazione di mitologie, splendori mistici dell’ebay. 

Questi versi ci dicono molto del surrealismo di massa e della colonizzazione dell’inconscio in cui da due o tre decenni, come sonnambuli, alloggiamo. Ma senza nessuna ironia o morbido nichilismo, rendendoli terribilmente evidenti, proclamandoli cioè come fatto conclamato, al contempo esigono nel lettore coscienza e veglia. Il mondo che ne consegue, scandito da un decalogo in corsivo, solo in apparenza sognato, è esattamente il nostro: rivelato da un sopramondo o sottomondo fantascientifico, è copia “taggata” (p.13), esasperata e conforme del Reale.

Bella e terribile, dunque, come un incubo freddo, questa raccolta di Lidia Riviello: una volta e per sempre fuori dalla lirica, dentro l’epigrammatica e la poesia di pensiero. Tanto da ricordarci nel sonno che avvolge edifici, cose e persone – non per “fisico gravame” ma  come memoria e calcolo delle “compatibilità del capitale”, la prima  pagina di un romanzo sperimentale e profetico: Le mosche del capitale  di Paolo Volponi. 

Emanuele Zinato



Tre pagine da Sonnologie di Lidia Riviello (Editrice Zona, 2016)


*


popolarità del bancomat
sopraffazione dell’uomo sul sogno


si gioca molto nel mondo
nella plastica
generare un paradiso
reinvestire nel poker




il sangue non arriva al gomito e la rivincita in fondo al mare
sottende ad un knockout dell’antagonista approdato sulle isole
che non ci sono.


*


mercanzia onirica
se l’uomo non dorme perde una qualità



se avessero costruito al toro un mondo
questi visualizzatori
non funzionerebbero sempre, sarebbero solo architettura



non reagiscono dentro la catena
se lasciati liberi nella cornice



una sola vena in trasferta
al passaggio dell’autoerotismo
si alimenta in questa specie di sonno



quando la vista splende, il sogno perde molto gas,
esalta definitivamente il mondo delle pose.


*


una volta si sognava senza produrre


l’istituto chiede di amministrare mitologie utili per questo sistema


venerdì 9 giugno 2017

"The Lunatic" di Charles Simic

Effettivamente, nonostante l'attenzione che l'editoria nostrana ha dedicato costantemente a Charles Simic (da ultima la recente raccolta di scritti La vita delle immagini per Adelphi), mancava la traduzione di The Lunatic uscito nel 2015. La versione italiana, proposta senza interventi di traduzione del titolo originale, è messa a disposizione con testo a fronte da Elliot, per la cura di Paolo Febbraro e con le traduzioni di Damiano Abeni e Moira Egan (186 pagine al prezzo di 25 euro). Il poeta nato a Belgrado nel 1938, che a guerra finita trascorre cinque anni a Trieste prima di trasferirsi stabilmente negli Stati Uniti per iniziare una lunga carriera non solo poetica, è uno di quelli che oggi metterebbe in crisi i convinti discorsi sulla tecnica poetica. In una dichiarazione ricordata anche dal curatore, Simic ha infatti affermato che "non c'è alcuna preparazione per la poesia", distogliendo così, almeno apparentemente, l'attenzione da un aspetto "tecnico" del fare poesia che almeno in Italia sembra aver ripreso piede nelle discussioni che s'adoperano e s'affannano a separare il grano dal loglio, i poeti veri dai presunti, quelli bravi da quelli meno bravi. Ma Simic è uno di quegli autori che ha troppa strada e mestiere alle spalle perché possiamo imbrogliarci a seguirlo troppo in questi ragionamenti pure un pochino depistanti, tra la provocazione e la frase ovvia disarmante. La sua molta poesia (ha scritto davvero tanto) si nutre di un realismo immaginifico addomesticato da sonnambulismo malinconico, di collage di fenomeni disparati e lontani che s'agglutinano improvvisamente nella sua gelatina cerebrale e quindi sonora. Paolo Febbraro così ha chiuso la sua nota di apertura intitolata "Poesia e combinazione":
Le poesie di Simic somigliano a un filosofo gioiosamente materialista che comincia a esprimersi suonando un sassofono jazz, inanellando mille note di scombinata compattezza. Nessuna metafisica ingombrante, nessuna saturazione: con la briosa malinconia di Simic possiamo e vogliamo convivere, respirando a pieni polmoni e facendo ampio esercizio di esperienza. Simic sta sveglio di notte, continuamente colto di sorpresa da milioni di cose già note, per moltiplicarsi e continuare a trovare sé stesso in quel gran rimescolio. Del resto, quando si fa sera, sono gli animali notturni a farci sapere che il mondo esiste ancora, nonostante tutto.
The Lunatic (ho letto in qualche sito che dovrebbe essere il suo trentaseiesimo libro di poesia) è una serie di componimenti abbastanza brevi scanditi sempre da titoli nei quali fanno capolino situazioni tipiche, luoghi e spesso animali. Quel che va detto è che il lavoro di traduzione a quattro mani ancora una volta è egregio e lo vorrei esemplificare con un breve testo, forse il più breve di tutti, che però la dice lunga anche sul mutamento acustico che subiamo nel passaggio da una lingua con molti monosillabi a una lingua notoriamente povera di parole monosillabiche. In As I Was Saying Simic scrive Simic:

That fat orange cat
Slipping in and out
Of the town jail
Whenever it pleases,
How about that?

In italiano la poesia diventa, in Come stavo dicendo, una rotonda cantilena di diverso tempo eppure consistente, persino fedele:

Quel gattone arancione
che sguscia dentro e fuori
dalla prigione comunale
come e quando vuole,
mica male eh?

Questo è un aspetto importante, fondamentale: sapere di potersi fidare di traduttori in grado di scelte coerenti e coraggiose dovrebbe essere in cima alla lista di ogni preoccupazione editoriale, prima ancora della scelta del nome del curatore. 

Simic, così come Matthew Sweeney, poeta irlandese da lui apprezzato e non tradotto in italiano, ha una predilezione per lo strano, lo strambo. Se in pubblicità esiste lo schema AIDA da applicare a uno spot (Attenzione - Interesse - Desiderio - Azione), Simic a volte pare applicare qualcosa di simile quando tratteggia una scena con pochi colpi, la circonda di curiosità e desiderio, facendo breccia sulla nostra azione, che resta, in ultima istanza, quella di leggere i suoi libri. Va da sé che questo schema può stancare e non appassionare chiunque, ma anche in questa nuova opera lui pare farcela nuovamente soprattutto ad attirare l'attenzione e a suscitare interesse. Penso a testi come "Un nuovo taglio di capelli", "Non dare un nome ai polli", "La medium" o "Questo paese non è male". Sempre Febbraro ha scritto che "sulle bancarelle improvvisate dei suoi versi Simic registra la presenza di quanto è stato scaricato di senso, depotenziato, e che pure reca le impronte digitali di una Storia minuscola, polverizzata, ma integralmente sentimentale".

Fa specie, sia detto in chiusura, leggere le presentazioni che i siti degli editori stranieri dedicano ancora ai poeti affermati. Anche nel caso di Simic non si contano le frasi di ridondanza legate alle citazioni dei premi, all'affermazione del poeta lungo tutta una carriera puntellata di successi, le sue abilità di deliziare con tocchi pittorici. Fuori dai nostri confini non è caduta in disuso nemmeno la dicitura "Poet laureate" che qui da noi ha avuto funerali precoci e solenni con Montale. Fa quasi impressione questo divario di considerazione. Allo stesso tempo io non so come prenderla e tutto ciò non mi pare degno di approfondimenti che vadano oltre questa mera constatazione di differente trattamento. Insomma, non ci elucubrerei troppo e non trarrei affrettate conclusioni sullo statuto o sul ruolo del poeta (portiere, ala, attaccante, quarterback?). Da noi, quando si pensa al poeta, c'è sempre più il rischio di pensare qualcosa di simile all'intellettuale così come lo cantava Gaber ("non credo più all'ingegno del popolo italiano / dove ogni intellettuale fa opinione / ma se lo guardi bene / è il solito coglione"). Parimenti esiste la liberazione di credere, sempre con qualche riga di Gaber, che "rispetto agli stranieri / noi ci crediamo meno / ma forse abbiam capito / che il mondo è un teatrino". A volte, non sempre (solo a volte, eh, sia chiaro) teatrino un po' lo è.

lunedì 5 giugno 2017

"Nuova enciclopedia" di Alberto Savinio: fine supremo della cultura è l'ignoranza

Quote #16

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

Nuova enciclopedia di Alberto Savinio è da poco disponibile anche in edizione tascabile e economica (pp. 401, euro 15, la precedente edizione, ritratta accanto, era del 1971 e costa 10 euro di più). Si tratta di un libro adatto, com'era il Cynar, a combattere il "logorio della vita moderna". Lo dico sia nel senso della consultazione per voci che si incunea bene nei vari interstizi di una giornata, sia nel senso di liberazione che la lettura di alcune di queste voci procura. Riferendosi a quest'opera "enciclopedica" saviniana nata dal personale scontento per le enciclopedie esistenti ed entrata in gestazione già negli anni Quaranta, Giorgio Manganelli ha scritto così: "Il suo universo è discontinuo, senza approdi, soprattutto senza destinazione. Non si troverà mai il cosmo, non si indagherà mai il significato. Non esiste profondità, ma solo una infinita serie di superfici. Il mondo è una liscia pelle che nasconde altre pelli lisce: all'infinito." Si tratta di una delle possibili fantasie di avvicinamento a queste pagine. Ma ogni voce, che sia "CUPOLA", "DOLCI", "DRAMMA" o "FUCILE", è destinata a depositare qualche scoria nella testa di chi legge. In "DRAMMA" per esempio c'è un passaggio sulla percezione del tempo che definire profetico è dir  poco, e si ricordi il periodo di scrittura di questa enciclopedia. Scrive Savinio: "Vi siete domandati perché la vita oggi è tanto rapida, tanto fluida, tanto scorrente? Vi siete domandati perché oggi il tempo passa più presto?... Già ho dato più sopra la risposta: perché oggi la vita è tutta orizzontale e il tempo non trova intoppi al suo cammino". E naturalmente questa felice impostazione per lemmi, sostanziosi o apparentemente frivoli, cuce un libro destinato a persistere nel ricordo di chi lo vorrà leggere. C'è anche quest'aspetto di memorabilità di una lettura sul quale capita raramente di confrontarsi, ma che ogni tanto varrebbe la pena di stanare. Non ho ancora terminato di leggere questo tomo considerevole che tuttavia si presta, come detto, a una lettura frammentaria come la mia e com'è la lettura di qualsiasi enciclopedia. Questa che segue su "CULTURA" è una delle molte voci che mi sono segnato.

CULTURA. La cultura ha principalmente lo scopo di far conoscere molte cose. Più cose si conoscono, meno importanza si dà a ciascuna cosa: meno fede, meno fede assoluta. Conoscere molte cose significa giudicarle più liberamente e dunque meglio. Meno cose si conoscono, più si crede che soltanto quelle esistono, soltanto quelle contano, soltanto quelle hanno importanza. Si arriva così al fanatismo, ossia a conoscere una sola cosa e dunque a credere, ad avere fede soltanto in quella. Cfr. i tedeschi che sono portati alla specializzazione. Anche il fanatismo è una specializzazione. Conclusione: poiché fine della cultura è di far conoscere il maggiore numero di cose, e poiché conoscere una cosa significa distruggerla, fine supremo della cultura è l'ignoranza. Mi si passi questa dichiarazione di orgoglio: io già intravedo questo supremo stato di cultura - questo supremo stato di ignoranza. Già intravedo questa calma suprema, questo sguardo estremamente sapiente che spazia su un mondo di cose conosciute - di cose distrutte. Questo cimitero di cose. Questa pace ultima. In fondo questa mia ‘meta’ si confonde col principio stesso della vita cristiana, che è ignorare; e la supera anzi, perché la meta mia ignora anche Dio. Io non so dire veramente se ignoro Dio perché la mia conoscenza lo ha ‘traversato’, o perché non lo ho mai conosciuto. Resta a sapere se Dio è cosa ‘da conoscere'.

sabato 3 giugno 2017

"Odiare la poesia" di Ben Lerner convince solo per un po'

I lettori di poesia, che poi in Italia si dice essere gruppo coincidente con i praticanti di questo diporto, dovrebbero conoscere bene quel sentimento di fastidio prepotente che a volte sale leggendo versi (altrui, ma forse anche i propri talvolta). Il fastidio, del resto, per poesia o non-poesia, credo sia una grande tematica del nostro presente, apparentemente invece così innaffiato di empatia. L'autore del libro di oggi alla parola "fastidio" preferirebbe di certo "disprezzo", sulla scia dei versi di Marianne Moore con cui apre questo pamphlettino. Credo che ai lettori di poesia, agli scrittori di poesia e persino a certi docenti di lettere, sia ben chiaro quella sorta si sentimento totalizzante e persino totalitario di amore e odio (che non è il catulliano odi et amo) nei confronti di un testo poetico che si apre sotto ai nostri occhi. Come anticipato, potremmo chiamare ciò una sorta di fastidio latente per la poesia, alimentato all'interno dei nostri confini nazionali ma anche all'estero da puntualissimi articoli dei critici un tempo più quotati sulla sua cancrena, agonia, morte sopraggiunta ecc. (Berardinelli, solo per fare il nome di un critico italiano particolarmente attivo in questa pratica che non riesco a trovare interessante). Tra l'altro questi discorsi, fa notare verso la fine del saggio il nostro autore di oggi, riagguantano ogni volta una concezione utopica e idealistica della poesia della quale non sappiamo bene se ci siamo liberati o se comunque vorremmo liberarci. Ad ogni modo - questo è bene saperlo - questo fastidio per la poesia esiste e non è certo solamente un fatto italiano. Sulla falsariga di ragionamenti del genere, ma anche perché si tratta di un autore su cui punta per altri titoli, Sellerio manda in libreria la traduzione di The Hatred of Poetry del giovane e quotato Ben Lerner (Topeka, 1979), traducendo il titolo originale con Odiare la poesia (pp. 88, euro 12, traduzione di Martina Testa). Curiosa è questa traduzione del titolo originale, assai libera e forse più efficace dal punto di vista promozionale, anche se non del tutto corrispondente al movente intimo di queste poche pagine scritte dal nostro poeta e narratore docente di letteratura inglese al Brooklyn College (specifico la docenza perché anche il tema poeti-professori è ripreso in qualche pagina di Odiare la poesia).

Ogni volta che il discorso sulla poesia si sposta e diviene discorso generico sull'ambiente poetico, i suoi frequentatori, i suoi vizi e le poche virtù (ma stanno sguinzagliando da ogni dove la "poesia onesta" a salvarci e possiamo dormire sonni tranquilli), le analisi tendono a diventare sociologizzanti, votate alla considerazione di un dato quantitativo soverchiante (scrivono in tanti, tantissimi, troppi?), schiacciate perlopiù dall'agghiacciante prospettiva del narcisismo totalitario che sta congelando ogni possibile interesse per la poesia (mi può interessare il narcisismo come tema, non le manifestazioni individuali e gli epifenomeni del narcisismo). Ben Lerner non vive in Italia, ma alla fine gli episodi di cui racconta potrebbero benissimo essere presi da ogni parte del mondo dove si scrive in versi e pare quasi che il suo saggio nasca per trovare una risposta a un disagio che lo riguarda da vicino e ci riguarda un po' tutti quando indugiamo in conversazioni poetiche. E il ricorso all'odio per la titolazione ben si attanaglia ai tempi moderni, alle polarizzazioni sociali tra fan base e hater. Il suo breve libro è più convincente nell'attacco, poi sempre meno, fino a un finale che mi è parso tutto sommato sfocato e dispersivo. Di questo libro possiamo salvare il movente, il punto di partenza, e per questo val la pena darne notizia, ma meno persuasivo è parso il tono via via che l'autore si è avvicinato alla fine. Jeff Gordimier, recensendo il volume su "The New York Times", ha scritto che potrebbe a un certo punto risultare che il pamphlet rappresenti una versione contemporanea del dibattito scolastico medievale su quanti angeli potessero ballare su una capocchia di uno spillo. Quella recensione comunque sembra voglia mantenere il piede in molte scarpe. Come detto c'è qualcosa di interessante nell'analizzare quel punto di partenza che accomuna tanti lettori e scrittori di poesia e la disamina del nostro autore, ma siamo lontani dal capire se esiste una sorta di soluzione per quel fastidio-disprezzo, se ha senso cercarla e prima ancora se ha senso parlarne di questo odio o se tanto vale lasciarlo così, senza porsi troppi problemi e domande. Ecco, semmai il libro è un utile stimolo per andare a riprendere in mano la questione dei poeti in Platone, quello sì. Tutto sommato non è poco, come quando, in un passaggio dei più convincenti e carichi di conseguenze, Lerner scrive che l'odio per la poesia "è connaturato a questa forma d'arte, perché è compito del poeta e del lettore di poesia usare il calore di tale odio per disperdere come nebbia il reale, rivelando il virtuale".

(La poesia di Marianne Moore di cui si parla all'inizio e da cui prende avvio il libro di Lerner è questa.)

giovedì 1 giugno 2017

"Quando l'orologio si ferma...". Raccolti in volume alcuni scritti critici di Emilio Tadini su arte e letteratura

Per i poliedrici il destino della memoria pare sempre più difficile, di sicuro più tortuoso (ma chi se ne importa, alla fin fine). Del resto uno potrebbe dire che se lo sono andati a cercare questo destino, non specializzandosi in qualcosa nella vita. Già, i noti orrori della specializzazione: e se uno l'opera della sua vita l'intendesse invece in una non-specializzazione che non diventerà solo una serie di romanzi, di libri di poesia, di mostre o esposizioni personali in questo o quel museo? Prendiamo Emilio Tadini (1927 - 2002), noto primariamente per la sua attività di pittore e artista visivo e oggi, potremmo dire, per essere stato tra i più convinti da noi a non credere del tutto alle sirene della Pop-Art americana (alla questa preferì l'omologa inglese). Fu presto poeta e esordì a vent'anni con La passione secondo Matteo. E fu autore di cinque opere di narrativa, comprese tra Le armi l'amore del 1963 e Eccetera del 2002. Tradusse da Shakespeare, Stendhal, Melville e Joyce e alcune di queste versioni uscirono per quella curiosa collana Einaudi "Scrittori tradotti da scrittori" (curiosa in termini di proponimento editoriale, tuttavia non più necessariamente avallo di autorevolezza o qualità, almeno per quel che vale ancora la dicitura scelta per nominarla). E proprio vent'anni fa uscì, sempre per il già citato Einaudi, un contenuto monologo teatrale di Tadini incentrato sulla figura di una donna che si rivolgeva a una corte: La deposizione è un testo con dei moventi secchi che forse dovremmo andare a leggere alla luce degli ormai svariati decenni in cui giustizia, linguaggio e media si sono intersecati in un garbuglio sempre più fuori controllo (e non ci salva di certo con la satira e nemmeno con gli equilibrismi facili dell'ironia). A tutto questo cosa manca? La critica, potremmo dire. In realtà non manca nemmeno quella, perché Tadini fu un critico di cose d'arte e di letteratura. Di una parte della sua attività di critico ne dà testimonianza ora questo recentissimo volume pubblicato da Il Mulino per la cura di Giacomo Raccis, Quando l'orologio si ferma... Scritti 1958-1970 (pp. 145, euro 15), il quale rappresenta una pregevole sorpresa: la raccolta di saggi, accompagnata da brevi note che collocano ogni singolo contributo nel contesto al quale apparteneva, abbraccia poco più di un decennio di interventi su letteratura e arte e mette di nuovo in circolo, in un'edizione di facile consultazione, alcuni scritti "mobili" del nostro autore.


Bepi Romagnoni, Goya (1959)
Ho usato l'aggettivo "mobili" per gli scritti del libro, perché in questi dodici anni del sottotitolo si può davvero percepire quanto stia incamerando e scegliendo Tadini nel percorso che lo porterà alla successiva stagione degli anni Settanta. Qui troverete contributi di diversa metratura su Alfredo Chighine, Roberto Crippa, Ennio Morlotti, Picasso, George Grosz, Alik Cavaliere, Joan Mirò, Gianni Dova, Valerio Adami, Bepi Romagnoni. E non mancherà di colpire il lettore interessato ad aspetti teorico-letterari e narratologici la parte centrale di questa raccolta, che racchiude alcuni scritti come l'introduzione a Elefante e Colosseo di Malcolm Lowry e soprattutto i due pezzi intitolati "Lo specchio che pensa" e "Il romanzo è convenzione". Sono articoli così densi di riflessioni attorno allo statuto del narratore che mi sono parsi, per usare una parola che si usa in questi casi, le chicche del volume. Notevole e da richiamare in questa breve nota è anche lo scritto "Il tempo e il cuore", dove i soliti grandi della narrativa del Novecento, Proust e Joyce, sono osservati come due fogli in controluce, alla ricerca della diversa filigrana del tempo che nelle loro opere maggiori traspare (le preferenze del nostro vanno all'irlandese, che appunto tradusse anche). Trasversali, da ogni scritto e direi persino da ogni paragrafo, oltre alla presenza preponderante di una città come Milano che è sfondo e superficie, emergono quello stile e quella distanza di una civiltà di "scienze, lettere e arti" che ormai è definitivamente sepolta (distanza è parola chiave in Tadini, tanto che la usò per un titolo di uno dei suoi libri più celebri). Ma non c'è certo nostalgia, non c'è rammarico in questa constatazione finale, ma solo un ulteriore invito a prendere in mano questo libro anche per simili motivi, per capire com'era, per riguadagnare persino certe buone maniere nell'esercizio sensato e irrinunciabile della critica.